«Ci siamo, tranquilla» fu la risposta della
compagna dall’interno.
«Ci siamo, tranquilla» fu la risposta della
compagna dall’interno.
«Fatevi belle, ragazze!» disse forte lui.
Poi sussurrando a Milena: «Con te non possono competere.»
Grandi occhi di lei.
Giorgia e l’altra compagna finalmente
uscendo parvero volersi accertare che il professore notasse gli splendidi
effetti del loro trucco. Ci avevano impiegato forse un bel po’ di tempo, ma
adesso anche loro erano giunte in territorio di incantesimo. Milena, forse già
in accordo con quelle, lanciò la richiesta di essere accompagnate dopo cena a
ballare. «Un ballo non può negarcelo, profe. Ha senso una gita se non si va in
discoteca?»
«No che non ha senso.»
«È risaputo che lei ha frequentato
importanti scuole di latino americano.»
«Di latino classico anche.»
«È una promessa allora.»
Lui vedendola felice tra le compagne amò la
raggiunta completezza di quella femminilità che gli si rivolgeva. Avrebbe
voluto dirle: fermati in questo attimo, fermati come sei. Tu non dovrai mai essere
delusa da uomini che non sono riusciti a conoscere niente di te.
‘Ridevano anche di me’ ragionò mentre
scendeva con loro le scale. Si sentiva addolcito da quella sottile complicità
da vivere in una sola sera, in viaggio, senza complicazioni, senza
competizione, senza sfide. O le sfide!
Al piano terra altre ragazze, truccate ed
eleganti, erano giunte. Milena, superato l’imbarazzo dell’essersi trovata sola
con il professore, adesso si rivelò la più ardita di tutte, quasi fosse di casa
in quel luogo, quasi ne fosse la padrona.
«Lei parla ancora il dialetto, profe?»
«Certo e ne vado orgoglioso. E qui se non
altro per dovere.»
«E com’è che non ne conserva l’accento?»
«Eh, ma… »
«Eh, ma. Perché non ci racconta nel suo
dialetto una bella storia? Ci traduce quando non capiamo.»
«Nel mio dialetto il tono trapasserebbe
troppo presto dal dolce all’amaro.»
Corrado era lì a due passi a intromettersi:
«Le femmine non hanno il coraggio di dire che vogliono le storie dolci, anzi
dolcissime prima e durante il banchetto e in previsione del ritiro degli amanti
in talamo, alla fine.»
Giorgia a sentir parlare di “femmine” e
"talamo" ne fu irritata: «Profe, Corrado non è noioso soltanto nelle
interrogazioni dove prende nove e dieci, annoia anche con queste osservazioni
non richieste. A noi interesserebbe invece sapere come era lei da studente.
Ecco ci racconti qualche storia del suo liceo e, se non ha niente, anche di
università. In dialetto acquisterebbe vivacità anche a fronte del nostro sforzo
di comprendere tutto.»
Tra Corrado e Giorgia c’era una gara per chi
prendeva voti più alti. Tra loro dovevano intercorrere altri sentimenti,
tuttavia nessuno, compagno o insegnante, aveva prove a conferma.
De Santis deve starci alle provocazioni. Si
accomoda su un divano come a indicare che acconsente alle richieste. Subito il
primo cerchio è fatto da ragazze. Milena e Giorgia si mettono di fronte su una
bassa e robusta panchetta dopo avere accantonato riviste e depliant turistici. Lui
contempla quella infilata di occhi angelici e armoniose sopracciglia che
formano un rigo musicale come su un affresco di chiesa antica. Fanno cornice
tutti i rimasti in piedi.
«Questo luogo vi fa un effetto molto diverso
dall’aula di scuola, mi pare.»
Voci del coro: «È bellissimo questo posto. -
L’aria di campagna ci risana. - Via, profe, cominci con una storia di liceo, dolce
o amara che sia. - Purché in dialetto con pronuncia purissima.»
Giorgia precisò: «Vogliamo una storia
comunque inerente alla sua formazione culturale, profe.»
«Curiosità da vera intellettuale la tua»
commentò Corrado.
«Tu sai corteggiare le ragazze solo nel
dialettaccio della bassa veronese» fu la risposta della ragazza.
E De Santis: «Mi costringete a ritornare su
certi ricordi che ho voluto cancellare.»
«Ma si sbrighi, profe!» insistettero gli
altri.
«La mia formazione ha il suo fondamento
nell’esercizio di critica impietosa nei confronti dei miei professori. Ipotizzo
che con voi succeda la stessa cosa.»
«Succede, eccome. È inevitabile» conferma
Giorgia suscitando l’ilarità generale. «Comunque se ciò che intende raccontarci
è vero, lei non deve preoccuparsi dei nostri commenti. Noi donne saremo
pietose.»
De Santis attese che si calmassero le voci e
intanto scelse il compromesso, il dolce-amaro, che poi è in definitiva lirico racconto.
Tradì ovviamente la parlata salentina, senza che si levassero opposizioni.
Lui e l’amico Cesare erano compagni di banco
in prima liceo classico quando un giorno arrivò il preside a fare una supplenza.
Un piccolo uomo sulla cinquantina con un viso bello ma mortificato nella
struttura minuta anche se regolare di tutta la persona. Era soprannominato il nachirio, nel mondo greco colui che
aveva il comando della nave e in Salento il capo operaio nel frantoio delle
olive. Per gli studenti il preside che torchiava le loro giovinezze. Gli
piaceva presentarsi in assenza dell’insegnante non tanto per controllare
l’apprendimento, quanto per leggere poesie nelle lingue antiche e moderne. Stavolta
prometteva la lettura del canto dantesco di Paolo e Francesca e già fioccavano
dotte considerazioni sul peccato e sulla pena. Il disinteresse era generale. I
ragazzi erano stufi di Dante e si stavano annoiando col Petrarca. Cesare
considerava sottovoce con l'amico l’effetto della polvere di gesso sulle falde
del cappelletto di feltro nero che l’omino utilizzava per sembrare più alto e
che adesso distrattamente aveva posato sulla cattedra nell’angolo che il
cancellino teneva sempre imbiancato. «Secondo te quelle falde di tipo strettino
vi aderiscono proprio piatte sulla superficie?» Impossibile decidere. Quell’oggetto
ridicolo stava lì apposta a raccogliere polvere che poi passava nel cervello di
un uomo a stipendio delle muse. «Solleva la testa e vedrai meglio; non sono
proprio piatte; hanno il bordo esterno rivolto in su, in su ma poco…» «Ma no,
sono rivolte in giù. Non l’hai visto l’uomo come se lo tiene calcato in testa
quando piove?»
Il commentatore dantesco aveva cominciato a
irritarsi del parlottio dei due. Aveva visto lo studente De Santis anche
ridere, così a punizione lo aveva chiamato alla cattedra perché leggesse i
versi dell’incontro del poeta con Francesca. Lui, obbediente, cominciò, ma rovinando
con la tremenda inflessione dialettale la tragica storia dei due amanti.
Nachirio lo fissava con la cupezza della nuvola temporalesca avanzante. A un
certo punto il fulmine scoppiò svegliando anche l'ultimo degli addormentati.
«Ma come mi pronunci il verso la bocca mi
basciò tutto tremante? In quel basciò ci deve essere lo “sc” fiorentino, dolce come il sapore della
bocca di lei e lento come l’invasione della paura, non secco e veloce come uno sciò alle galline. E poi se pronunci tremante col "thr" della parlata dei nostri villici
trasformi una storia di palazzo nell'abboccamento in un trullo e dimostri di
non aver compreso l'emozione della scoperta dell'amore ricambiato.» E aggiunse
rimandandolo al posto: «Sempre che un giorno la dea Venere voglia compiacersi
con te.»
«Sa, profe, non è che lei adesso legga
meglio» commentò Giorgia, facendo ridere anche i perplessi su un episodio della
formazione del loro professore. E Milena incoraggiata dalla battuta dell'amica:
«Sa, profe, qualche volta prima della sua ora di lezione abbiamo battuto ben
bene il cancellino sull'angolo della cattedra per vedere poi come lei puliva
con i fazzoletti di carta.»
«Tu riprova e ti metto su seduta a
spolverare con le gambe.»
Lei, seduta alla panchetta, ben lasciava
immaginare il tipo di operazione. Tutti guardarono quelle meravigliose gambe,
tra gli "evviva!" e i "bravo!"
al profe.
5 Nebbia
A te racconterò
un'altra storia. A te, cara, che hai immaginato con le tue compagne baci
tremanti e fuochi sul viso. Vorrei che questa sera in questo sud lontano non
avesse ieri né domani, che mai finisse questo attendere in una camera accanto
alla tua, da dove attraverso la parete sottile giungono scosci di risa. Sentire
uscendo sul balcone volto alla silenziosa campagna la tua voce che ferisce i
vetri illuminati.
Avevo uno in più dei tuoi anni quando una
sera nebbiosa di novembre mi trovai a trascinare due pesanti valigie in una
strada della estrema periferia nord di Milano. Fidando nelle mie forze e ipotizzando
una distanza breve dalla stazione ferroviaria non utilizzai il taxi. Quando
ormai le soste brevi non bastavano più per farcela ad avanzare comparve la
scritta indicante il collegio. Oltre il cancello di ferro avanzai su un
vialetto che tagliava la cinta d'alberi ormai spogli. Su di me incombeva a
sinistra una altissima costruzione, con la sua scheda disordinata di punti
luminosi che saliva a sbiadire e ad annullarsi nella nebbia. Pochi scalini
portavano a un passaggio verso l’ingresso sotto un andito che alla mia destra
era aperto su una vasta aiuola rettangolare. Questa per altri due lati era
circondata da una pensilina su pilastri con muretto di protezione. Era chiusa
sul quarto lato dalla sezione più bassa dell'edificio di soli quattro piani con
le sue righe di finestre pure irregolarmente illuminate. Mi infilai attraverso
una doppia porta a vetri in un grande atrio la cui complessità spaziale per il
momento mi sfuggì, teso com’ero a presentare le carte di ingresso al portiere
custode, il quale mi assegnò subito il numero 118 di camera. Mi prese
gentilmente una valigia. Per due rampe di scale arrivammo al primo piano del
corpo basso. Dopo qualche passo su un lungo corridoio con la teoria dei suoi
freddi neon fummo davanti alla porta. Mi consegnò la chiave dicendomi solo che
l’orario di servizio mensa stava per scadere. Devo aver pensato con un filo di
angoscia a una sorta di inizio in quel giro di chiave. La vista del letto già
mi faceva chiudere gli occhi. Piccolo armadio, tavolo di studio verde collocato
sotto i ripiani pensili per i libri, due sedie; tutto era lucido e lustro sotto
la lampada centrale. Bagnetto interno. Sollevai la serranda e aprii la
finestra. Più basso di un mezzo metro dal davanzale si stendeva di traverso un
manto nero in cui erano inserite quattro file di mattoni in vetro cemento che
lasciavano passare la luce di quelli che supposi essere i locali delle cucine.
Oltre i tre metri circa di larghezza di questa corsia di lumi fiochi la
copertura si sollevava in un’onda catramosa. Più in là ombre caliginose
d’alberi spogli su sfondi d’alte costruzioni abitative. Chiusi la
finestra.
Ero stato in dormiveglia la notte prima di
partire, senza sonno la notte del viaggio; mattina e pomeriggio tra uffici e
primo sguardo al centro città. Mangiai l’ultimo panino senza scendere in sala
mensa. Al ritorno dalle docce dormii filato fino alle quattro del pomeriggio
del giorno successivo.
Nessuno disturbò il mio sonno. Ebbi prima dell’ora di cena tutto il
tempo per orientarmi nella struttura interna ed esterna del collegio e chiedere
le prime informazioni circa le disposizioni in questa mia nuova dimora. A parte
gli spazi comuni la sezione alta di dodici piani era destinata ai maschi come
pure il primo piano dove si trovava la mia camera. I tre piani superiori erano
per le ragazze. Scale e ascensori, rigorosamente separati pena l’espulsione dal
collegio in caso di violazioni, erano controllati giorno e notte dagli addetti
alla portineria. L’atrio s’andava affollando di studenti e studentesse. Passai
nella lunga sala di intrattenimento con i suoi salottini. Era una galleria che sul
lato a vetri affacciava sull’aiuola con i cespugli nudi di rose e quindi su
quel chiostro semiaperto per il passeggio dei nuovi chierici. Percorsa la
galleria entrai nelle salette della televisione e dei giornali. Lento e
intimidito mi decisi alla cena con un certo ritardo. Sospeso col vassoio in
mano nella ricerca di un tavolo vuoto per non infastidire nessuno, fui raggiunto
da una voce femminile.
«Puoi
sederti qui.»
Al tavolo da quattro posti una graziosa
dagli occhi grigio azzurri era impegnata con due tipi di bell'aspetto in un
dialogo per il quale forse desiderava un testimone. A loro di me fu sufficiente
sapere il nome del mio paese e che ero iscritto a filosofia. Dalle battute
scambiate si capiva che a lei, montanara sopra quel ramo del lago di Como che
volge a mezzanotte, solo da un paio di giorni nella grande casa dello studente,
matricola di lettere moderne, veniva offerta protezione su vasto raggio anche
perché da laureandi in medicina. Entrambi sicuri di entrare in
specializzazione. Uno parlava anche di nozze prossime. Erano insomma la
raffigurazione vivente del prodotto finito dell'università milanese. Della ragazza parlava la sua bella
figura: profondità dello sguardo, capelli neri tenuti alti a coda a ondeggiare,
coordinati i gesti, ma si mostrava come impaurita di dover sostenere una
conversazione leggera, quasi caricaturale rispetto a un inizio colmo di
incognite, a una nuova avventura di vita. Segno forse quell'aria di essersi
vestita elegante, con leggero trucco e begli ornamenti, ma convinta di una sera
da passare in uno stato di malinconia, in un luogo di estraneazione sì da
affrettare il rientro in camera. Di imprevisto quel trovarsi accanto uno con
l'aspetto trasandato e perso, con i segni, anche nella barba non rasata, di un
lungo viaggio, pantaloni stinti e maglione sformato dall'uso.
Luisa Danesi: il nome l’avrei saputo la
mattina dopo, perché complice una timida inerzia nell’accodarmi al gruppo di
collegiali l’avrei seguita sui mezzi pubblici fino alla Statale. E anche il
numero di chiave della sua camera avrei letto mentre la consegnava al portiere,
il 217. A riflettere il suo tavolo di studio stava di fronte al mio separato da
un muro sottile, ma… più in alto di un piano. Negli anni rimanemmo così.
(Ottava uscita)
6 Convivio
Sulle lunghe ali
della tavolata le due classi andavano mescolandosi con vari ripensamenti,
mentre i cinque insegnanti seduti sul lato di congiunzione erano già ai primi assaggi
e ai calici levati alti. Cesare sulla sinistra discorreva con Ilaria e un
collega salentino messo al posto d'onore. Luigi all'altro estremo ascoltava
distratto le osservazioni di Ida su certi loro studenti eternamente a intrigare
anche in operazioni minime come nella destinazione dei posti. Non vedeva Milena
che prima si era aggirata in sala a porsi centro d'attenzione dei maschi per
poi sparire. La strategia: lasciarsi assediare, quindi sottrarsi e far dolere
della sua assenza. Forse già decisa su chi premiare.
Riconobbe le borsette appese alle spalliere
delle due sedie ancora libere vicino a sé all'angolo.
Non era possibile.
Giunse con l'amica Giorgia.
«Possiamo star qui o deve venire qualcuno?»
Ida guardò le ragazze di traverso. «Brave.
Avete scelto la compagnia all'uomo che fa promesse che poi non mantiene.»
«Se è per questo» commentò Giorgia «tutta la
scuola è così.»
Le prime bottiglie di primitivo, i carciofi
fritti, le crocchette di patate, la cicoria selvatica con il crespigno, il purè
di fave fecero alzare in breve tempo il volume delle voci. Di quel passo presto
si sarebbe arrivati al frastuono generale. Questo per l’esteriore. Tutti davano
un segno solenne della contentezza e dell’appagamento derivanti dalla prospettiva
delle prossime giornate di escursioni, di scoperte, di altri pranzi e cene.
Le professoresse veronesi avevano l'aria di
essere venute in viaggio solo per seguire il loro collega, con una differenza
tra le due. Ida si divertiva a esternare anche in presenza degli alunni sollecitazioni
di carattere sessuale nei confronti di Luigi. Non stesse l’uomo a dormire
davanti alla disponibilità dichiarata. Con una certa imponenza fisica si
univano in lei brillantezza di spirito e vivacità, doti che le occasioni
conviviali mettevano in risalto. Ilaria fidava nella sua persona piacente, si
limitava a rinforzare o a contestare le battute scherzose della collega, non
prevedendo e forse non desiderando altro. Entrambe comunque erano sposate.
Dopo che furono svuotati tutti i piatti della
prima ondata, i commensali, in attesa della seconda, elevarono via via il tono
di voce. Milena era voltata verso l’amica Giorgia, scoprendo necessariamente le
gambe ben oltre le ginocchia, fatto teneramente osservabile dal posto di De
Santis, non concentrato a portare avanti un discorso particolare, ma solo
attento a intervenire quando fosse chiamato in causa. Improvvisamente Ida alzò
un braccio per chiedere silenzio. «Udite gente, non vi pare che, trasportati dai
divini sapori di questa mitica terra salentina, stiamo trascurando il nostro
maschio mediterraneo?»
I “sì” e i “no” furono gridati in
confusione.
«Non crediate che voglia spargere fumi di
incenso sul nostro soggetto; anzi questo è il momento di chiarire con l’aiuto
di tutti qualche mistero su di lui. Tanto per cominciare domando alle veronesi
perché sono sempre pronte a obbedire ad ogni suo comando.»
Giorgia si assunse il compito di rispondere:
«Noi obbediamo semplicemente all'ordine di studiare.»
«Nessun mistero. Sono studiose. Tutto qui.»
Intervento tempestivo di De Santis, sogguardato dalle due ragazze sulla sua
destra, in eloquente espressione solidale con lui.
«Ma dai, ma dai» venne a dire Ilaria
«diciamo la verità, siamo noi a dare l’esempio alle allieve corteggiando il
nostro uomo e quindi a indurlo a promesse che poi dimentica.» E mentre lei
lasciava intendere di occasioni sfumate con donne che però non erano lì a
confermare o a smentire, il professor Cesare Capani cominciava a presentarlo
nelle vesti dell’amabile distratto.
«Vi racconto. Una volta lui in Grecia su una
spiaggia solitaria dardeggiata da un sole abbacinante legge un libro, avendo
creato con un cappellaccio a tese larghe una opportuna nicchia d’ombra. A un
tratto, a meno d’un metro di distanza, una bagnante, completamente nuda, con un
braccio teso è lì che aspetta avendo chiesto qualcosa in un inglese terribile
all’orecchio del nostro, il quale, già isolato dal paesaggio circostante, finalmente
leva gli occhi dalla bianca pagina, faticando a tenerli aperti sul candore
abbagliante della ninfa. L’ultima cosa che inquadra è la sigaretta tenuta tra
le dita e che lei vuole accendere. Avendo speso troppi secondi per convincersi
di una immeritata offerta, sconcertato, nega di avere fiammiferi, perdendo così
l’eccezionale occasione di appiccare altri incendi. Ecco l'uomo perso con le
donne.»
«Non è così perso,» affermò a voce alta
Giorgia «anche se talvolta lo vediamo con la testa tra le nuvole.» Un
"no" echeggiato fuori campo venne anche da Milena, che già eccitata
dall’atmosfera conviviale bruciò con gli occhi il suo professore e continuò a
fissarlo aspettando una difesa. Difesa che non venne. Che già Ilaria levava
alto il bicchiere pieno. «Gloria agli adorabili distratti che rassicurano le
maritate!»
«La testa tra le nuvole è una caratteristica
dei sognatori e dei malinconici» chiosò l'amico Cesare. «Il fascino sulle donne
è conseguente.»
Anche Ida sollevò il bicchiere, ma per
contestare. «Il nostro eroe sarà stato realmente malinconico prima di
apprendere l'arte di rassicurare pulzelle e maritate. Confermo la mia idea di
un atteggiamento di studiata distrazione.»
Ridevano tutti al tono strascicato delle sue
parole e al continuo interrompersi per portare il bicchiere alle labbra.
«L'avrei adorato il mio Luigi se l'avessi
incontrato quando era un ragazzo povero e spaesato» continuò. Gli era incollata
al fianco con la sedia e quasi a confermare gli mise un braccio sulle spalle. «Quel
tratto dolce forse rimane quando si innamora.»
«Bacio! bacio!» si urlò. E davanti alla sua
ritrosia, «Profe, si lasci andare» lui
udì chiaramente detto da Milena. Pensò che avrebbe spento la luce e il rumore
del mondo per altri baci.
«Adesso vi illumino io sul suo potere di
fascinazione» riprese l'amico Cesare. «Era l’estate prima del nostro ultimo
anno di liceo. Sulla strada di campagna dei suoi, qui in Salento, lui va bel
bello in bicicletta e trasporta legata dietro sul portapacchi una cassetta di
pomodori. È raggiunto per caso da due nostre compagne di classe anche loro in
bici. Si affiancano per salutarlo. Diciamo salutarlo. Una che fa? Accosta al
massimo e staccando la destra dal manubrio riesce a prendere un pomodoro bello
grosso, poi rallenta per distanziarsi. Lo lancia quindi e quello sfiora
l’orecchio sinistro di Luigi rotolando sull’asfalto. Lui lo schiva per un
soffio accendendo simultaneamente un pensiero. La ruota anteriore della bici
della lanciatrice lo prende in pieno. Il "porca puttana" è urlato
infatti dalla ragazza. L'audace si è presa gli schizzi in mezzo alle gambe e
sui pantaloncini bianchissimi. Ecco» concluse «come il vostro idolo era
corteggiato dalle ragazze.»
Giorgia non stava quasi nella sedia dal
ridere. «Avessimo saputo la storia, avremmo ascoltato con altro animo certe
lezioni.»
«Per esempio?» le chiese Cesare.
«Beh tutto il penultimo capitolo de Il Processo
di Kafka. Sa, quando K è nella cattedrale buia e il prete parla di una
legge che può condannare chiunque senza prove.»
«Ho capito. Avreste desiderato che anche a
De Santis qualcuno gli tagliasse la testa.»
Tutti parvero rendersi conto che c’era una
studentessa interessata ad aspetti comunque non superficiali del suo
insegnante.
«Che il nostro leggesse Kafka alle fanciulle
non lo sapevo» disse Ilaria. «Io sapevo della sua passione per Il cavaliere inesistente di Italo
Calvino.»
E Ida: «Ah sì, cara Ilaria, non passa anno
che il nostro fissato non faccia leggere quel libro nella classe quinta. Se
rimane inesistente il cavaliere Agilulfo, è invece molto ingombrante il maschio
professore mentre commenta il testo alle sue allieve.»
Adesso i ragazzi veronesi prestarono più attenzione
a queste battute tra le due professoresse. Nasceva il dubbio che a lezione non
fosse stato spiegato tutto su quella storia.
«Posso pensarlo inesistente l’uomo, Ida, ma
con tutto ciò che serve al sogno dell’ideale e al deposito della memoria.»
«Se a te piace immedesimarti nella
castellana che si inebria per tutta una notte della conversazione con una
armatura vuota, fai pure» rimbeccava la collega. «Ma le ancelle, cara mia, a
pianterreno del castello, se la passano a rotolarsi a turno con l'aitante
scudiero.»
«Eppure quelle all’indomani non ricordano
alcuna lussuria col giovane e invece chiedono alla padrona come è andata col
cavaliere. “Oh Agilulfo!” si sentono rispondere. Come a dire: dipende da ciò
che vi preme sapere, figliole!»
«A chi vuoi darla ad intendere, cara Ilaria,
che del giaciglio si perde subito la memoria? Il maschio con i suoi commenti si
immedesima nel cavaliere inesistente solo per mettere ali alla immaginazione
delle sue donne. Imprudenza a dir poco. Condanna!»
«Condanna, condanna!» gridarono per allegria
molti dei giovani commensali.
«Assoluzione!» gridò Cesare. «Se lui ha
letto queste pagine alla sue allieve, è per spiegare la diversità tra il tenere
inteso come possesso e l’intrattenere inteso come corrispondenza di sentimenti
e affetti. È la differenza tra il valore d’uso e il valore di scambio, tra il
dominio e l’amore. E se non lo spiega lui a queste ragazze cos’è l’intrattenere
senza tenere, chi accidenti d’altra persona lo può fare?»
«Bravo! bravo!» gridarono con Ilaria gli
innocentisti.
(Queste le prime 26 pagine. " CONTINUA .."