CRONACHE
(archivio della bacheca)
2.92
La veglia funebre
La veglia funebre secondo il rito buddista (denominata tsuya) è la prima parte della cerimonia di addio al defunto, che si conclude nel giorno successivo con la cremazione e il funerale (soushiki). Mi sono recato a questa cerimonia in quanto era venuto a mancare il cognato di mia moglie, famoso docente universitario di lettere. Ancorché risieda in questo Paese da più di dieci anni, questa era la prima volta, e solo la curiosotà ha fatto sì che trovassi la voglia e il tempo per assistere a un evento che nel mio paese ho sempre cercato di evitare. Del resto è vano sperare, da queste parti, di venire a conoscenza delle cose senza farne esperienza diretta: caratteristica di tutte le persone è il non dare assolutamente spiegazioni. Infatti anche mia moglie, nonostante le molte domande sul come si dipanino veglia funebre e funerale, mi aveva dato solo risposte evasive: allora ho deciso di andarci. La veglia funebre buddista, oggigiorno, non si tiene quasi più nella dimora del defunto, ma in apposite strutture di cui la capitale, grande fornitrice di materie prime, abbonda. Quella che ho visto io era nel centro della metropoli, e dall’esterno poteva assomigliare a una clinica svizzera per malati di mente appartenenti a famiglie facoltose. Entrato da un grande cancello, v’era sulla destra un parco curatissimo con alberi secolari e sulla sinistra una costruzione, in stile moderno, composta da piano terra e primo piano. Al piano terra c’era un portico della stessa lunghezza del fabbricato, provvisto di benedetti posacenere per chi avesse la voglia di dar due tiri, tra un pianto e un inchino. Dentro, parallelo al portico, un ampio corridoio che collega ben cinque camere ardenti, perché la cerimonia avviene spesso in contemporanea per ben cinque defunti, ma non si sa se per condividere il dolore o, più volgarmente, per far economie di scala. Quel giorno c’erano cinque morti, per cui nel portico e nel corridoio, mescolati, v’erano i parenti dei cinque, e la prima cosa difficile per me è stata il capire quali fossero i parenti del professore morto – alcuni dei quali avevo incontrato solo di sfuggita e che, quindi, non potevo riconoscere. Allora, temendo di essere scortese, mi inchinavo cerimoniosamente a destra e a manca, mentre mia moglie, tirandomi lievemente per la giacca, cercava di indicarmi le persone giuste a cui indirizzare l’inchino e poi mi sussurrava la loro relazione col defunto. Poco dopo ogni congiunto di sesso maschile ( me compreso) ha ricevuto l’incarico di porgere a un parente all’uopo designato dalla famiglia del defunto, e che stava ritto dietro un tavolo all’ingresso della camera ardente, la busta contenente il denaro per il coniuge sopravvissuto, usanza alla quale non si può assolutamente derogare, ancorché si sia in condizioni di grave indigenza. Qui era forse più importante non sbagliare, ma per fortuna si era sotto la sorveglianza di cinque avvenenti ragazze, dipendenti del Centro e vestite all’occidentale, che indirizzavano i pochi latori indecisi ( fra i quali c’ero io ) a fare le offerte al giusto tavolo. Terminate le consegne del denaro, le stesse provvedevano a invitare i presenti a salire al piano superiore, al quale si accede mediante un’ampia scala mobile, come quella di un grande e moderno centro commerciale. Lì vi è un corridoio più ampio, perché corrisponde allo spazio del corridoio e del portico sottostanti, dal quale si entra in cinque stanze che servono a ospitare i parenti in attesa della cerimonia, che scatta per tutti alla stessa ora. Sono entrato in questa stanza con la moglie, e ci siamo seduti ad uno dei tanti tavoli. Dopo pochi minuti due inservienti, altrettanto avvenenti, ci hanno servito il te. Sarebbe problematico sbagliare stanza, e ritrovarsi con i parenti di un altro morto, ma è difficile perchè le stanze superiori corrispondono ordinatamente alle camere ardenti inferiori, e inoltre le inservienti fanno buona guardia, anche se non ho ancora capito come possano collegare senza fallo tutti parenti ai rispettivi morti. Ovviamente l’atmosfera era triste, e quando si è avvicinata la consorte del defunto, mia moglie non ha potuto trattenere le lacrime. Abbiamo così aspettato mestamente l’ora d’inizio. Dieci minuti prima, le cinque badanti sono salite e hanno avvertito tutti di scendere. Per mezzo di un’altra ampia scala mobile si ritorna al piano terra e quindi si entra nelle camere ardenti. Al fondo della camera vi è una costruzione lignea che riproduce la forma di un tempio buddista e che reca al centro una grande foto del morto. Davanti vi è un piccolo spazio vuoto, dove stanno i due bonzi (bosan) incaricati delle orazioni, delimitato da un banco su cui sono appoggiate due candele e quattro piccoli bracieri. Sulla destra, a fianco di questa specie di altare, vi sono le sedie per la famiglia. Sulla sinistra uno spazio per la badante. Poi, a partire dall’ingresso e fino all’altare, sulla destra le sedie per i parenti, e sulla sinistra quelle per gli amici e conoscenti. Al centro uno spazio libero. Preso posto, all’ora convenuta è iniziata la cerimonia. I bonzi si sono inchinati per primo verso i posti degli amici, poi verso quelli dei parenti e infine verso quelli dei famigliari. Siccome in questo Paese l’ordine delle cose funziona al contrario rispetto all’Occidente, me lo ero spiegato così. Invece dopo ho saputo che il motivo era differente: si salutano prima gli amici perché si sono scomodati di più a venire, mentre è normale che vengano i parenti e assolutamente logico che vengano i famigliari. I bonzi recitano le preghiere di rito in una maniera che potrei definire “semicantata”, intervallata da qualche squillo di campanello e battito di tamburo, ma le parole ascoltate, vuoi perché pronunciate in modo veloce e alterato, vuoi perché la liturgia usa termini della lingua classica, mi sono risultate incomprensibili. Dopo queste prime preghiere inizia la parte toccante della cerimonia. Per primo si alza la moglie e si reca al centro della stanza davanti al tavolo con i bracieri. Si inchina verso gli amici e poi verso i parenti ( e ovviamente ad inchino si risponde con inchino pur stando seduti) e poi prende un’essenza aromatica (kyara, fatta con legno di aloe, che sta in un piattino a fianco del braciere ), la avvicina alla fronte, e quindi la mette sulla brace. Questo gesto può essere ripetuto sino a tre volte solo nel caso in cui partecipanti al rito non siano molti, altrimenti si andrebbe troppo per le lunghe. Poi, fatto un secondo inchino verso amici e parenti, torna al suo posto. Dopo di lei è il turno dei figli, poi quello dei parenti e infine degli amici, sempre osservando il medesimo cerimoniale. La badante avvenente provvede a invitare le persone quattro a quattro, essendo appunto quattro i bracieri. Durante tutta questa cerimonia un bonzo canta la preghiera accompagnandola col battito del tamburo, con una velocità che aumenta progressivamente e che causa un aumento di pathos: infatti anch’io, che praticamente conoscevo a mala pena il defunto, ho provato una commozione che non mi sarei mai immaginata. Alla fine il bonzo di grado più alto commemora il morto con poche e semplici parole e congeda gli astanti. Ordinatamente, sotto la sorveglianza della badante, escono prima gli amici, poi i parenti e infine i famigliari, ordine che deriva ancora dalla ragione prima esposta. Ma la cosa non finiva lì: tutti venivano invitati a ritornare nelle stanze del piano superiore e sedersi ai tavoli. Io pensavo che ci fosse un’altra mezzora di lacrime, quando, improvvisamente, sbucano le inservienti con ogni ben di Dio: sashimi, sushi, tsukemono, bevande alcoliche, bibite e per finire dolciumi di ogni sorta. L’atmosfera cambia completamente: tra l’intrecciarsi dei discorsi e dei brindisi (kanpai) e il rarefarsi degli inchini, i volti si rischiarano, alcuni arrossiscono, su altri sbocciano sorrisi, e via via l’allegria aumenta fino al punto in cui una persona che entrasse in quel momento penserebbe di assistere ad una cerimonia di nozze.
from 藤沢
In attesa del morto
Da queste parti, le morti e i funerali sono un problema serio, non tanto per chi è morto, che giace in pace come da noi, quanto per chi è vivo, che vorrebbe darsi pace, ma qui non può o, perlomeno, la cosa risulta più complicata. Dopo lunga malattia, qualche mese fa è mancato il fratello di mia moglie. Come avevo già scritto in un altro racconto, avvengono due cerimonie : prima la veglia funebre e poi il funerale. Ma, trattandosi in questo caso di un parente molto stretto, prima della veglia funebre ci siamo radunati nella casa del defunto. Da quello che mi era stato detto dalla moglie – che da queste parti non corrisponde mai all’esattezza – saremmo dovuti andare a dare l’ultimo saluto al morto, la cui salma, proveniente dall’ospedale, sarebbe stata trasportata nella sua dimora in attesa di essere poi ritrasportata nel luogo della veglia funebre. Era stato stabilito che io, mia moglie e sua sorella, saremmo dovuti arrivare dalla vedova per le due del meriggio, mentre la salma sarebbe dovuta pervenire dopo qualche decina di minuti, giusto il tempo per gli inchini previsti dal caso e per scambiare qualche parola di conforto con la vedova. Arrivati, la casa presentava evidenti i segni di una trascuratezza lunga quanto lunga era stata la permanenza del malato in ospedale, trascuratezza alla quale si univano anche segni di recente povertà, come lampanine bruciate e non rinnovate, alcune fodere rattoppate alla meglio, e avanzi del misero pranzo della vedova. Occorre sapere che da queste parti, ancorché il Paese goda la fama di essere opulento, restare in ospedale per diversi mesi costa un patrimonio. Allora, seduti in una dimessa saletta, dopo i rituali e dopo aver accostato le labbra a una tazzina di té, si era in attesa della salma, per far posto alla quale era stata svuotata completamente la stanza più vicina all’ingresso dell’abitazione. A quel punto la vedova ci avverte che prima della salma sarebbe arrivata una dipendente dell’impresa che gestisce veglia e funerale, per stabilirne le modalità. Infatti entra una ragazzina, molto fine e gentile, che indossa uno splendido tailleur nero. Dalla valigetta, anche questa nera, estrae tutti i dépliants necessari per illustrare i servizi e i relativi costi, nonche i moduli da compilare per il contratto. La vedova, mia moglie e l’altra sorella del defunto ascoltano attentamente, facendo le opportune osservazioni e i commenti del caso, ma io, che oltretutto non capisco alcune parole della terminologia mortuaria, non so proprio cosa fare se non attendere l’arrivo di questo benedetto morto, salutarlo e andarmene. La ragazzina ci lascia dopo un’oretta, ma il morto ancor non arriva. Io inizio a dover celare segni di malumore, in quanto non so cosa fare e dire alle tre donne, ma anche queste iniziano a dover celare il malumore per la salma che non arriva, nonostante il tempo passato. A un certo punto la vedova, sollecitata dagli sguardi interrogativi delle altre due, telefona all’impresa. Le rispondono di non preoccuparsi perché arriveranno senza fallo con la salma – almeno così ci riferisce riappesa la cornetta. Ma passa il tempo e il morto tarda ancora. Seconda telefonata della vedova, che ascolto con attenzione pure io, incuriosito. “ Mi scuso tantissimo per il disturbo che vi arreco, ma qui da me ci sono le sorelle di mio marito, e il marito italiano della minore, e fa caldo, e la vostra funzionaria è già uscita da un’ora, ma stiamo aspettando ancora la salma, che, come voi ben sapete e come era stato detto, sarebbe dovuta arrivare già da qualche ora....... insomma, vorrei sapere qualcosa.” Riappesa per la seconda volta la cornetta, la vedova ci dice che l’impresa non trova una cassa della lunghezza del marito ( infatti era un uomo alto 195 cm ) per cui ci sarà da aspettare ancora........
from 藤沢
Problemi di sepoltura
Quando una persona di questo Paese vuol chiedere qualcosa a un’altra persona, la quale non goda di quella particolare intimità che esiste solo nei rapporti tra genitori e figli – e dalla quale sono quindi il più delle volte esclusi sia i rapporti coniugali, sia gli altri rapporti di parentela, sia quelli di amicizia – non la chiede mai direttamente, ma con giri di frasi che a poco a poco arrivano al punto finale, che contiene la domanda vera e propria. In sostanza, graficamente, si potrebbe rappresentare questo processo con una spirale, dove il punto d’arrivo ( cioè l’oggetto della domanda ) è quello all’interno del disegno. Stessa cosa avviene nella sintassi del periodo dove, ad esempio, viene prima la subordinata di secondo grado, poi quella di primo e infine la proposizione principale. La domanda diretta, oltre che agli stretti famigliari, è però possibile anche nei confronti delle persone che sono assolutamente estranee. Che nei rapporti tra genitori e figli e nei rapporti con le persone assolutamente estranee non si nutra alcun riserbo, alcuna timidezza o alcuna esitazione, si spiega facilmente: con i primi, per la grande famigliarità, con i secondi, per la sua totale assenza. Ora mia moglie, nativa di questo paese, aveva in mente una precisa domanda da rivolgermi, ma siccome il coniuge appartiene alla categoria che sta a mezzo delle due sopra citate, per arrivare al dunque ha fatto tanti giri a spirale, come adesso vedrete: Moglie – Senti, come ti trovi qui? Io – Abbastanza ben e. Moglie – Non ti manca niente dell’Italia? Io – ( con aria pensosa ) Ma... non saprei.... Moglie – Per esempio, non ti manca la cucina italiana? Io – ( con un poco di acquolina in bocca ) Veramente mi manca il salame, e poi mi mancano anche i formaggi: se penso alle mie tome piemontesi....... Moglie – Quindi vorresti tornarci? Io – Questo no, ho detto solo che qui salame e formaggio me li sogno. Moglie – E quindi? Io – ( con leggera impazienza) E quindi cosa? Moglie – Non torni? Io – Ma insomma, si può sapere qual’è il problema? Moglie – Ecco, vorrei sapere come programmare il futuro, solo questo. Io – Programmare in riferimento a cosa? Moglie – In riferimento alla tua permanenza o no in questo paese. Io – Ma io permango! Non ho mai detto di voler tornare in Italia. Moglie – Allora, visto che permani, è necessaria una tomba. Io – Una tomba? Moglie – Certo! Prima o poi non pensi che dovrai morire? Tutti gli uomini devono morire! C’era anche un famoso sillogismo che..... Io – Lo conosco il sillogismo, e vedo con piacere che è giunto sin qui, ma io non penso affatto di morire, almeno per il momento, quindi la tomba non mi serve. Moglie – Però se la compriamo adesso c’è lo sconto! Io – Lo sconto? Moglie – Sì. Mio fratello mi ha detto che se compriamo una tomba per due persone entro tre giorni ci fanno lo sconto del cinquanta per cento. Cioè compriamo due tombe singole pagando il prezzo di una! Non trovi che sia un affare? Io – Veramente una tomba non è mai un affare, comunque... vada per l’acquisto. E così abbiamo comprato le due tombe, l’una adiacente all’altra, per farci compagnia anche un domani. A dir la verità il luogo è molto bello. E’ una piccola valle tra due monti dalla quale si vede un’altra valle sottostante, e più larga, tutta coltivata a vigneto. Sulla destra del terreno adibito a tombe c’è un piccolo ruscello, dal quale sale un dolce mormorio. Sulla sinistra un bel bosco dove, secondo i monaci proprietari del terreno, ci sarebbero i “matsutake” che sono i funghi migliori delle montagne locali.
from 藤沢
Come ben sa il nostro esimio Maddaluna, io tutti i giorni clicco sul link che collega a questo nostro Blog
https://ilcusmeil68.blogspot.
per essere informato sulle novità caricate dal nostro webmaster.
Ieri vi ho trovato due sorprese.
La prima: ho scoperto che avevo (ai tempi del CUSM) un sosia, Tonio Capalbi, che sinceramente non ricordo. Data in effetti la somiglianza fra noi due, e dato il fatto che ho visto me (?!?) fotografato tra amici, non mi è venuto il dubbio che non potessi essere io, insieme ad Anna, Felice, Michele. Comunque, diamo a Tonio quello che è di Tonio: se è in collegamento con il Blog o se lo informa qualcuno che è in rapporto con lui, Tonio faccia avere a Maddaluna una foto di come è adesso, così vediamo l’evoluzione anche della sua chioma.
Didascalia aggiornata dal prode Maddù:
Da Felice Lacetera. Qui con Anna Sarotti (come tutt'ora),
più Tonio Capalbi (sosia di Paolo Pulina) e Michele Ranieri.
Questa foto viene anche conservata nella rubrica
"4. COME eravamo" (banda sx del BLOG versione web)
La seconda sorpresa ha SUSHItato in me una forte emozione. Caro Giorgio Bertolotti, è vero, può darsi che tra noi due, ai bei tempi “ideologici” del CUSM, ci sia stato qualche scazzo, ma sinceramente non mi ricordo qualcosa di particolarmente grave. Sono contento per le parole fin troppo gentili che mi scrivi. Cosa posso dire? Ricambio affetto e amicizia. Anche con un po’ di invidia: in effetti, per quanto riguarda l’aspetto fisico, quam mutatus ab illo! io lo dico a me, mica a te, che sei rimasto sottile come una canna (magari hai SUSHItato anche la stizza di Maddaluna, che ambisce – come si sa – a essere “il miglior fico-‘fuscello’- del bigoncio”) ma credo che tu come canna (di deleddiana memoria) che ha resistito ai venti occidentali e orientali meriti le nostre congratulazioni.
Il quam mutatus ab illo! – me lo consentirai – sorprendentemente lo attribuisco a te che hai scritto quello che hai scritto – seduto sul divano culturale orientale – sulla differenza di interpretazione e di considerazione che noi, seduti sul divano occidentale, pensiamo e diciamo riguardo alla civiltà del Paese del Sol Levante. Fai bene a correggere, con cognizione di causa, la nostra (distorta e sopravvalutatrice ) visuale.
Ma, per me le sorprese non sono finite: fai riferimento a Gramsci, del quale sono studioso da decenni: soprattutto per la mia ricerca sulla ricezione dell’opera e del pensiero di Gramsci in Francia ho avuto qualche lusinghiero apprezzamento non solo in Italia ma anche in Francia e in Inghilterra. Non riesco a fotografarti i ripiani dei miei scaffali riempiti dalle edizioni delle opere di e su Gramsci: magari il nostro Maddaluna, stimolato da te, potrebbe finalmente leggere i quattro volumi dell’edizione critica (curata da Valentino Gerratana, Einaudi 1975) dei “Quaderni del carcere”. Nell’indice degli argomenti, come sai, non manca neanche il Giappone: vedi pagina 3200 con i rimandi alle pagine manoscritte dei “Quaderni”.
Maddaluna mi ha detto che in tutti questi anni in Giappone hai insegnato Italiano. Gramsci, come sai, è uno degli studiosi italiani più tradotti nel mondo, è tradotto anche in Giappone e non è certo un caso che lo scrittore Kenzaburō Ōe abbia dedicato il premio Nobel ricevuto nel 1994 proprio a Gramsci.
Conosco bene anche il romanzo “Silenzio” di Shūsaku Endō, da cui Scorsese ha tratto “Silence” perché, per un corso per l’Università della terza età di Pavia sui missionari coraggiosi, mi sono occupato anche della penetrazione dei gesuiti in Giappone. So de non gesuita Giovanni Battista Sidotti
e del gesuita sardo padre Giuseppe Pittau (che ha ricevuto la più alta onorificenza dell’Impero giapponese con l’Ordine del Crisantemo per i suoi meriti nel campo della cultura): https://www.avvenire.it/
Ma da emigrato dalla Sardegna devo citare non solo Pittau, ma anche i tanti studiosi giapponesi di Gramsci:
https://cpb-us-e1.wpmucdn.com/
E’ stato pubblicato un vocabolario sardo-giapponese: https://www.facebook.com/
Un gruppo di giovani giapponesi ha formato un coro “a tenore”, secondo la migliore tradizione sarda:
https://www.youtube.com/watch?
In Giappone opera un’associazione di emigrati sardi denominata “Isola”: isola.giappone@gmail.com
Nota. Curiosamente ieri sera, 12 aprile, La7 ha trasmesso il film “Black Rain - Pioggia sporca”, dove le differenze culturali fra Giappone e civiltà USA sono esemplificate.
Caro Giorgio, io trasmetto questa mia risposta a Piero per il Blog: ma, per non tediare troppo gli altri, su queste questioni e curiosità interculturali possiamo anche rimanere in contatto direttamente noi due: il mio indirizzo di posta elettronica è paolo.pulina@gmail.com
Saluti da Paolo Pulina e da Marinella Mirinino
NdR
Scrive Paolo :
" io tutti i giorni clicco sul link che collega a questo nostro Blog "
Seguire l'esempio di Paolo è cosa buona e giusta. Le vostre visualizzazioni
ci permettono di restare in prima fila nel WEB !
Di essere subito rintracciabili dal vecchio e smarrito cusmino ivi in transito.
Caro Pulina e ti dico caro, ancorché non ci fosse mai stato un buon rapporto tra noi. La ragione era che io ovattavo con l’alcol complessi e problemi derivanti da una famiglia disgraziata, mentre tu eri una persona con la testa sul collo. Premesso ciò, ora che son divenuto un po’ serio pur’io, ti posso assicurare che il tramonto dell’Occidente (intendendo ovviamente per Occidente solo la vecchia Europa) è ben lungi dal venire, nonostante quel che disse l’Oswaldino di Blankenburg, e ti spiego subito il perché. Il Giappone (per la Cina dirà Vito) ha una notevole letteratura (pensa che il primo romanzo psicologico della letteratura mondiale è stato scritto da una giapponesina ben mille anni fa), un teatro molto interessante e una mitologia che ricorda quella greco-romana. Ma, ahimè, non c’è stata la filosofia, e questo comporta che la gente è incapace di fare un qualsivoglia ragionamento teorico. Ne consegue che, quando deve prendere una decisione, non potendo ipotizzare i casi al limite, deve considerare la marea dei casi intermedi, per cui ci mette una vita. E, una volta presa, va avanti sino alla morte, perdendo le caratteristiche umane, per assumere quelle di un robot. Ora che vento vuoi che venga da un paese di robot ? Non che in Europa ora si sia messi bene : tutti sparano cazzate, i giudizi son dati senza pensare (a proposito : nelle scuole dovrebbero introdurre come materia di studio alcuni Quaderni di Gramsci (per insegnare come si giudica) ma c’è, seppur sepolta, la possibilità di un nuovo rinascimento (non certo quello che volevano fare quei due coglioni di Sgarbi e Tremonti!). Bacioni, Giorgio
E avendogli io chiesto di Gramsci, in riferimento a Pulina cui risponde :
Quanto a Gramsci io mi son letto l'edizione completa (4 volumi) dei Quaderni dal carcere (te la consiglio !)
Come ragionano da queste parti
Di fronte alla stazione c’è un supermercato dove vendono un vinello giapponese leggero ma genuino. Da tre anni andavo a comperarlo, ma una cosa mi stupiva : siccome i minorenni non possono comprare alcolici, e il supermercato è vicino a una università, quando la commessa prezza una bottiglia di vino, dalla cassa automaticamente esce una voce che chiede la conferma della maggior età. Essendo la cosa automatica, la richiesta vien fatta non solo ai giovani, ma a tutti, e la conferma avviene toccando con la mano un cartello plastificato dove c’è scritto : maggiorenne.
Ora, per tre anni io mi son adeguato, ma un giorno, che avevo già i coglioni girati e non avevo nessuna voglia di fare quel gesto insulso, ho detto alla commessa che mi richiedeva con insistenza di farlo:
“ Scusi, ma io sono settantenne, come lei può vedere, e da ben tre anni compero il vino qui due o tre volte alla settimana, e non credo di essere ringiovanito di cinquant’anni dall’altro ieri a oggi ! ”
“ Mi spiace, ma se lei non tocca il cartello non posso venderle la bottiglia : è una regola della direzione”.
“ Quindi un bimbo di dieci anni, per il solo fatto di toccare questo cartello, può comprarsi una bottiglia di vino?”
“ No, perchè si vede che è un bambino!”
“E allora se la beva lei e vada a fare in culo (quest’ultima frase in italiano, dal momento che non esiste una frase corrispondente in giapponese) !”
MaddaLUNA, il nostro SOLE veramente mai calante,
ha messo a segno due colpacci da autentico Maestro:
grazie a un Cusmino da anni nel Paese del Sol Levante,
cioè Giorgio Bertolotti, ha rintracciato Vito Lo Castro,
Cusmino trasferitosi in Cina, nel Paese del Dragone.
Ad entrambi rivolgiamo una amichevole petizione:
dato per scontato il “Tramonto dell’Occidente”,
descritto da Spengler, chiediamo ai due “asiatici”
di scrivere a quattro mani per noi “Alba dell’Oriente”,
facendo così felici tutti i sudditi MaddaLUNATICI.
Se il vento del futuro viene dall’Estremo Oriente,
e non abbiamo alcun motivo per non concordare,
Vito e Giorgio ci illuminino convenientemente
su quali cambiamenti di vita ci dobbiamo aspettare,
a parte naturalmente il fatto che i primi programmi
saranno quelli di familiarizzare con i sinogrammi.
per la loro canzone “Nuraghes e Monumentos de Pavia”:
L’affaccendata
a tutte le donne, dalle nonne alle nipotine
2 gennaio 2021 . Science
Oggi pubblico l'ultimo lavoro del nostro
dr. Fabrizio Donazzi su metodologie scientifiche e su
gli andamenti dei dati epidemiologici Covid 19 in Italia.
Diciamo oltre due terzi del materiale fotografico.
Per lo resto dovrai spupazzarti tutti li restanti
archivi. Buona visione !
13 dicembre 2020 . da Paolo
Le immagini della nebbia presenti in diverse poesie
di Giorgio Caproni sono un ricordo dell’anno in cui
fu maestro elementare a Casorate Primo (PV)
Di questi tempi a Pavia e in provincia si è rifatta viva la nebbiaintensa che negli anni passati sembrava avesse abbandonato i
nostri territori. Questo suggestivo fenomeno meteorologico non
ha mai lasciato indifferenti i poeti. Sicuramente il primo che
viene in mente è Giosuè Carducci, che, nei primi versi della
notissima “San Martino”,
«La nebbia a gl’irti colli / piovigginando sale», la cita in senso
descrittivo come segno distintivo di una stagione. Giovanni
Pascoli, invece, alla nebbia personificata chiede di rendere
invisibili le cose lontane, di nascondere «quello ch’è morto»
e di permettergli così di vedere soltanto ciò che è vicino e che
lo rasserena: «Nascondi le cose lontane, / tu nebbia impalpabile
e scialba, / … Nascondi le cose lontane, / nascondimi quello
ch’è morto! / Ch’io veda soltanto la siepe / dell’orto, / la mura
ch’ ha piene le crepe / di valerïane».
La nebbia in funzione metaforica di “confusione” che non solo
avvolge ma addirittura “occupa” la testa del poeta (in un tempo
antecedente alla conoscenza della amata Rina) ricorre anche
nella breve poesia “Nebbia” di Giorgio Caproni, che gli è stata
ispirata dal paesaggio della provincia di Pavia, in un momento
non proprio felice in cui ha insegnato come maestro elementare
a Casorate Primo: «Partivo sempre in mattine / nebbiose (con
vaporose / e lunghe locomotive nere), / e mi mettevo a sedere
/ – nel fumo della stazione – / d’angolo, in un vagone. //
Partivo nell’ora albina / e umida, quando la brina / copriva
ancora i binari / a lutto, e straordinari / suonavano gli ululati /
degli altri treni, bagnati. // Partivo senza capire / dove mai
andassi a finire. / Avevo nel capo nebbia; / nel cuore – verde
– una Trebbia. / Il tempo era di prima / che avessi conosciuto
Rina».
Traiamo alcune brevissime notizie dalla accurata cronologia
approntata da Adele Dei per il volume dei Meridiani Mondadori
“L’opera in versi” che raccoglie tutte le poesie di Giorgio
Caproni (Livorno, 7 gennaio 1912 – Roma, 22 gennaio 1990).
A ventitré anni, nel 1935, Caproni prende il diploma magistrale.
Alla fine dell’anno comincia ad insegnare a Loco di Rovegno
(Genova), in Val Trebbia. Ai primi di marzo 1936, poco prima
delle nozze, muore di setticemia la fidanzata Olga Franzoni
che lo aveva raggiunto con la madre a Rovegno. Nel 1937 a
Loco il poeta conosce la figura femminile che lo accompagnerà
per tutto il resto della vita: Rosa (Rina) Rettagliata. Nello
stesso anno dà tre concorsi per la scuola elementare
(a Pavia, a Torino e a Roma), e viene mandato dall’autunno
come maestro a Casorate Primo. Nel novembre 1938 si
trasferisce definitivamente a Roma, dove aveva vinto il
concorso per un posto di maestro di prima categoria.
Da una intervista rilasciata dal poeta a Enzo Fabiani e
pubblicata nel settimanale “Gente” il 3 aprile 1981
(interamente ripresa nel volume “Il mondo ha bisogno
dei poeti”, che riunisce di Giorgio Caproni “Interviste
e autocommenti 1948-1990”, a cura di Melissa Rota,
Firenze University Press, 2014), ecco la certificazione
che i frequenti riferimenti alla nebbia nelle poesie di
Caproni sono influenzati dall’anno di permanenza in
provincia di Pavia: «Nel 1937, siccome avevo vinto
come maestro tre concorsi, fui mandato a Casorate
Primo, vicino a Pavia (e questo spiega perché nella
mia poesia parlo spesso di nebbia»).
Paolo Pulina
Turtlén
Gianbattista Giudici (il Titta) ieri su WhatsApp ci ha servito
le immagini che poi seguono. Preparativo per le festività,
secondo la migliore tradizione, istorie et Saperi.
Una (istoria) porto, tratta dalla Letteratura Grande
e buona, nostra : di Boccaccio, et nome basta ..
Visto ? frutto di Cultura Alta, nella specie di
CULTURA (te lo sillabo) CUL IN ARIA.
( van serbati nel freezèr, con gelo molto )
( che, pronti ognun lo Sfintèr suo, Pfizèr di San Lorenzo* li tutti salverà )
Ma torniamo al Titta o meglio a Magda, dacché il
Nostro ha fatto andar sol lo dito, e per li scatti TRE.
UNO
Magda. All' opre femminili intenta
DUE
__________________________NdR____________________________
per i post precedenti vedi ARGOMENTI : cronache (da bacheca)
BLOG versione web - la colonna di sinistra
______________________*______________________
Ti ricordo che il BLOG (questo) è stato costruito da
Pippo Ripa (nickname : Staffora). Sue tutte le
pubblicazioni fino alla morte (24 maggio 2012).
Ho raccolto la sua eredità ma sono tecnicamente
inesperto (contrariamente a lui) in questo campo.
Ultima cosa : Luciana Donazzi, cara amica di Pippo,
è mia moglie. Pietro Maddaluna
pietro.maddaluna@gmail.com
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